di Magali Moulinier
“Lo chapiteau è una cima, una vela tesa, una canopia metaforica issata verso la luce, che disegna altri scenari del “vivere insieme”. La mostra Nomadic Art Circus ospita le opere degli artisti tanto quanto le opere lo abitano: abitare la tenda con le proprie opere significa, in uno spazio e in un tempo determinati, tracciare una relazione con il territorio, amplificando così la portata del loro stesso soggetto. Fare corpo, prendere corpo, dare corpo: così è per la foresta abitata del film di Oliver Ressler The path is never the same (Il sentiero non è mai lo stesso), nuovo modello di occupazione e di organizzazione sociale, una "società degli alberi" attiva e comunitaria, o ancora nella foresta dell’opera collettiva a cura di John Cascone (Fare Foresta) che arriva a riunirci anche nella solitudine collettiva della pandemia, attraverso immaginari incrociati in modo virtuale. Al contrario, tornando nell'eccesso di “realtà” di una società che rifiuta e (ri)getta le tracce sia del suo proprio abitare che del consumismo sfrenato, Aura Monsalves Munoz trova un terreno propizio alla sua azione Fissidens microstictus. ABBITATTSTAIL OVER/TUR, di John Cascone e Dario Vanasia, rivela, nonostante le apparenze, l’equilibrio organico sottostante all'urbanistica spontanea e alle abitazioni abusive, come un ecosistema che sembra nutrirsi delle sue stesse costruzioni. Il circo presenta un quadro corporeo all'opera nella sua organizzazione e fa del corpo lo strumento centrale del rapporto dell'uomo con il mondo. Filippo Riniolo con la sua presenza fisica, opera nella propria performance Weft (Trama) sul filo della reinterpretazione del racconto, amplificando l'oralità nomade. |
I corpi degli acrobati trasmettono il calore del loro movimento e ne lasciano traccia nel video Unseen di Lorenzo Colli mentre il corpo metamorfico della Donna Ragno (Un-existing) di Claudia Schioppa, ci tende lo specchio dell'ibrido incarnato. All'esterno dello Chapiteau, una pozzanghera, un laghetto spontaneo, una terra intrisa d'acqua funge da territorio all'installazione site-specific Habitat-Tardigradi di Simone Bertugno. La pozzanghera, poco attraente, ospita al suo interno i microrganismi più resilienti: i tardigradi, invertebrati la cui capacità di sopravvivere in condizioni estreme è particolarmente sviluppata. Punti di luce immersi nell'acqua brillano, illuminando i microscopici abitanti, come segnali di una natura-dea, resistente e capace di futuro nonostante tutto. Più avanti, il muro di pietra che delimita l'area del circo presenta un'apertura, traccia di un crollo spontaneo. Simone Bertugno vi installa una porta e ci invita ad aprirla: al di là di essa, un campo immenso, un prato selvaggio, una terra di nessuno, con un substrato particolarmente forte e simbolico nella tematica della mostra: l’abitare. Proprio qui, durante il fascismo, nasceva la borgata Teano, una delle cosiddette "borgate rurali", destinate ad accogliere la popolazione proveniente dalle aree del centro storico demolite, per dare alla città un aspetto moderno e “imperiale". La borgata , documentata da Elio Petri e Pier Paolo Pasolini, si è estesa a dismisura nel dopoguerra ed è sopravvissuta fino agli anni '70. Un’area oggi ri-naturalizzata, che lascia il ciclo dell'immaginazione aperto ad altri scenari di abitare il mondo.” |